Sono le 4,30 del mattino, mi alzo e senza accendere la luce vado verso la finestra . Ieri ho lasciato il cielo sopra al rifugio nero e umido. Attento a non inciampare negli zaini mi avvicino al vetro, alzo lo sguardo e Orione è lì, luminoso, in compagnia di altre centinaia di luci più piccole. Sono contento, la scommessa, per adesso, l’ho vinta. L’eccitazione è velata da quella tentazione di rimanere al caldo nella stanza accogliente del Selva Bella. Mi vesto, lentamente, accendo sotto la macchinetta del caffè ed intanto che aspetto osservo le tante immagini ed i tanti oggetti che ornano il salone. Felicia, negli anni, ha raccolto tante testimonianze del suo mondo, fatto di animali e piante, escursionisti ed amici. Gli zaini sono sulla porta, la macchina fotografica l’ho messa davanti a tutto, forse una forma di gerarchia infantile o semplicemente la paura di scordare l’unica compagna di viaggio di oggi. Esce il caffè … un po’ di miele, lo bevo avidamente: calore ed energia per l’avventura che mi aspetta. Esco, il cielo sopra di me è splendido anche se le cime intorno sono nascoste dalle nuvole … mi basta . Carico la macchina, giro la chiave del quadro. La temperatura esterna è di 2 gradi … ecco perché sentivo freschetto. Poco dopo, fatti con attenzione quei pochi chilometri di strada (i cervi possono traversare incuranti delle auto presi come sono dalle loro battaglie amorose) arrivo al piazzale dove lascio la macchina e metto gli scarponi. Chiudo l’automobile e quando si spengono tutte le luci di servizio … un attimo di smarrimento: il cielo è stellato, ma ora lascio l’ultima certezza e , solo, inizio a camminare. Ora la mia montagna è costituita dal cono di luce della frontale ed il mio cammino è un letto di piccoli riflessi di luce, creati dalla brina sulla breccia del sentiero.
Sento l’aria gelida sul viso , piano esco dal torpore e le gambe cominciano a parlarmi. Le ascolto sempre la mattina, non parlano sempre delle stesse cose. Ha volte mi suggeriscono di avere pazienza, di rallentare. La sinistra è quella più scontrosa, pigra. Oggi sembrano aver voglia di andare (forse l’adrenalina della notte e della solitudine le influenzano) e la destra sembra dire alla sua “gemella diversa” : dai ci sono io, coraggio andiamo! Il ritmo è il mio, lento e costante. Di tanto in tanto mi volto verso est, al di la’ della Serra di Rocca Chiarano, aspetto il chiarore dell’alba come un insonne che spera di finire presto il suo tormento. Non sono preoccupato per il sentiero: è una carrareccia. Piuttosto non mi piace la luce della frontale: è intensa e la pupilla, chiudendosi, non è in grado di percepire ciò che ha intorno. Ad un tratto mi si para davanti una macchia bianca luminosa che lambisce la strada. Ho bisogno di qualche metro in più per capire che si tratta di un pino mugo i cui aghi, bagnati dalla umidità e compatti come sono, riflettono tutta la luce della frontale. E’ interessante questa “realtà diversa”! Passano i minuti e il chiarore colora la valle e disegna i contorni dei monti e, ahimè, delle nuvole. Cominciò a sentire i cani dello stazzo che impauriti abbaiano a quei rumori e quegli odori a cui, ancora, non hanno dato un volto. Spengo la frontale, ormai di luce ce n’é abbastanza e voglio che mi vedano bene mentre mi avvicino. Come al solito i maremmani accompagnano il mio lambire lo stazzo avvicinandosi e per tornare tranquilli man mano che mi “capiscono”. Arrivo al bivio per il Ferrojo di Scanno che è ormai giorno anche se il sole ancora si nasconde dietro al monte Godi. Le nuvole sono ancora “affezionate” alle cime. Penso che il loro sentimento non muterà durante la giornata. Non mi interessa. Io oggi arriverò alla rada in mezzo a bosco sotto al Campitello. Lo scopo è quello di vedere e fotografare i maschi con il loro harem di cerve. Mentre cammino i colori caldi dell’alba creano paesaggi da ricordare non solo con la mente. Cammino e scatto. Sulle cime le nuvole si muovono con il vento ma la situazione non cambia di molto. Ad un tratto il sole esce da dietro la cresta del Godi “protetto” da un sipario semi trasparente e l’effetto è magico. Tra una panoramica e l’altra arrivo al bivio con il sentiero che inoltrandosi nel bosco mi porterà alla radura che spero sarà il palcoscenico delle mie fotografie. E’ molto umido ed entrando nel bosco il fastidio aumenta . Il terreno è scivoloso e le pozze d’acqua vanno “guadate” con attenzione. Mentre salgo vedo il chiarore che indica l’ arrivo alla radura. Il pensiero di trovare gli animali tranquilli a “giocare”, sono appena le 7,20, mi emoziona. Preparo la fotocamera e mi avvicino lentamente, in silenzio. Guadagnando terreno si apre sempre di più la visone della rada ma di animali non c’è traccia. La delusione non è forte perché non ho sentito bramire nessun cervo e dalla mia esperienza se ci sono si sentono. Scelgo un posto al coperto e mi apparto. Tolgo lo zaino, mangio qualcosa e … aspetto. Passano i minuti e il silenzio riempie le orecchie. Solo qualche sbuffo di vento muove gli alberi e riesco a sentire il rumore dell’autunno: chi lo avrebbe detto che le foglie cadendo fanno un suono. Io non sento bene e riuscire a percepire qualcosa mi meraviglia e diverte. L’attesa passiva permette agli occhi di “guardare” l’autunno intorno: i colori degli alberi cominciano a scaldarsi … mentre l’aria si raffredda. Penso a mia madre che, in questo periodo dell’anno, usa l’espressione “ormai è un’altra aria” per indicare la fine dell’estate: la bella stagione. Poi perché si chiama bella ? Tutte le stagioni sono belle, ognuna suo modo, e chi va in montagna questa cosa la conosce bene. Ecco un altro effetto dell’attesa: la testa si muove e va’ oltre la rada … Passano i minuti e di animali non se ne parla. Riguardo la carta e decido di salire verso lo stazzo di Corte. Quando sarò su valuterò se proseguire e chiudere l’anello o tornare su i miei passi.
La sentiero si fa’ ripido e rapidamente guadagno quota e nuvole. E’ la prima volta che mi trovo in questa zona. La nebbia non mi spaventa: la morfologia del terreno, per adesso, non lascia spazio agli sbagli. Uscito dal bosco però non vedo nulla intorno se non qualche cresta di tanto in tanto scoperta dal vento. Certo è che se ci fossero i cervi, a meno di non arrivargli vicinissimo , non li potrei vedere. Ma anche lì fare foto sarebbe difficilissimo. Se mi avvicinassi troppo scapperebbero fulminei e sarebbe impossibile, data anche la poca luce, “fermarli” in maniera decente. Mi ricorda la caccia subacquea fatta con il mare in scaduta. Invece di pesci ombre sfuggenti difficili da identificare figuriamoci da colpire. La soluzione potrebbe essere quella di appartarmi ed attendere di nuovo ma c’è vento ed è umido … proprio non ne ho voglia. Non mi piace soffrire in montagna se posso scegliere preferisco divertirmi. Non vale per tutti.
Continuo a salire cercando di vedere lo stazzo. Passo una spalla … dietro … una altra salita … vado avanti … le creste ora sono più vicine e la cima del Campitello è quasi alla mia quota. Finalmente, superato uno sperone calcareo , mi trovo davanti la valle con in fondo lo stazzo. Più che vederlo lo intuisco: le nuvole sono in rapido movimento ma compatte e solo di rado vedo la luce del sole senza filtri di vapore acqueo. Sono soddisfatto e non ho intenzione di continuare in mezzo al latte. Guardo l’orologio e decido di riscendere: voglio essere alla macchina per 14,00. Rientrando traverso di nuovo la radura, deserta come al mattino. Sulla via del ritorno il sole mi scalda e mi impigrisco ai suoi raggi. Penso che anche per gli animali deve valere la stessa cosa. Mi affaccio verso il Ferrojo di Scanno e lo sguardo corre a cercare animali lontani . Niente da fare. Ad un tratto però alle mie spalle sento un richiamo inconfondibile e lontano. Mi volto ed alzo lo sguardo. Su i bastioni calcarei che formano l’anticima del Campitello vedo due giovani cervi maschi che mangiano tranquilli. Di femmine nemmeno l’ombra. Ormai ho imparato che i giovani maschi pur non avendo un harem tutto loro stazionano vicino alle femmine e, poveracci, al maschio dominante. Continuo a camminare cercando con lo sguardo gli animali “mancanti” e, poco dopo, aggirata da sotto la cimetta dove giocavano gli “adolescenti inquieti” vedo due harem. Uno appena sotto quella cima ed un altro, più lontano, sulla cresta sommitale. Nonostante la distanza lo spettacolo è notevole e scatto qualche foto mossa e sgranata, unico risultato di “caccia fotografica” della giornata. Riprendo, dopo qualche minuto ed una 20ina di foto, la mia strada. Ora il sole alto nel cielo mi scalda ed il cammino si fa’ piacevole: la sensazione è che le ossa si asciughino. La realtà è che i vestiti lo stanno facendo veramente. La via del ritorno, soprattutto quando è la stessa dell’andata, è lunga e noiosa … ma qui c’è un piccolo plus: il telefono cellulare prende. Lo riaccendo, telefono a mia moglie per un breve racconto. Poi chiamo gli amici che erano al corrente della mia escursione conoscendo i luoghi ed i tempi previsti per tranquillizzarli. Quando vado da solo è mia attenzione di dare le coordinate dell’escursione a chi conosce la zona per intraprendere, in caso di problemi ed imprevisti, le debite azioni. Ora il sole di mezzogiorno permette di cogliere bene i colori autunnali della vegetazione e quindi occupo il tempo che mi occorre per raggiungere l’auto a scattare “qualche altra foto”. La scusa è buona anche per rallentare … inizio a sentire la fatica. Arrivando al parcheggio incontro un uomo sulla sessantina che è intento ad aprire la sbarra di accesso alla carrareccia. Alle sue spalle un “fuoristradone vero” di quelli da “paesani” . Lo vedo armeggiare mentre mi avvicino poi alza lo sguardo verso di me e mi dice : “Ogni tanto cambiano la serratura”. Non capisco il senso della frase ma non ho voglia di indagare. Continuando la conversazione mi chiede dove fossi stato. Quando gli rispondo che sono andato fino allo stazzo di Corte per vedere i cervi mi guarda e “saccente” dice: “E che lì cerchi qui ? Devi andare dentro il paese!” Lo guardo e rispondo, educatamente, che lo sapevo già ma volevo vederli in natura liberi e sereni. “Beh … qui i cervi li trovi o all’alba o al tramonto … mica a quest’ora!” Gli dico che erano le 5,00 quando ho iniziato a camminare poi … penso ad Orione e a tutte le sue sorelle “luminose” di questa mattina e ringrazio Dio di essere ancora capace di emozionarmi di fronte alle bellezze del creato.
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