Giro delle "5 vette"

Sabato 25 Luglio: ho voglia di rimettere le mani sulla roccia dopo quasi un mese di riposo forzato e le vacanze al mare. In Giugno e Luglio ho fatto solo qualche passeggiata e mi mancano sia i dislivelli importanti, sia la piacevole sensazione di usare tutti i muscoli del corpo per tirarsi su. Ho bisogno di fare un test delle mie condizioni, prima degli impegni alpini.

 

 

Decido per il giro delle “Tre vette” al Gran Sasso, quanto di più alto e di più aereo si possa fare dalle nostre parti con i mezzi del comune escursionista. Scarto i “Laghetti” perché non mi va di ficcarmi nel caldo del canyon esposto a sud e scarto il Corno Piccolo perché sono troppi Km di curve per arrivare ai Prati di Tivo.

 

 

Alle 7,00 spaccate sono già in marcia da campo imperatore, il parcheggio è ancora mezzo vuoto, ma vedo già gruppi di escursionisti davanti a me verso il Duca e sul traverso per la sella di Monte Aquila (il caldo è una brutta bestia, penso tra me e me). Cammino con passo regolare sotto il sole già alto e comincio a sudare; in mezzora sono alla sella e mi getto con sollievo nell’ombra di Campo Pericoli. Mentre continuo a superare gruppi di escursionisti, mi balena in mente l’idea che potrebbe essere la giornata giusta per fare anche il Corno Piccolo e realizzare un vecchio progetto di fare tutte le 5 cime più alte del Gran Sasso in giornata (Occidentale, Torrione Cambi, Centrale, Orientale e Corno Piccolo).

 

 

L’idea mi mette le ali alle gambe e, complice il fresco del mattino di questo versante occidentale del Corno Grande, raggiungo rapidamente la sella del Brecciaio (1 ora dal parcheggio) e l’inizio della ferrata Brizio. Un bel muretto di pietre sbarra il sentiero e invita a proseguire per la conca degli Invalidi e il passo del Cannone, ma “mi sembra di ricordare” di aver letto “da qualche parte” che la Brizio era stata ripristinata e decido di provarci lo stesso.

 

 

Mi metto il casco (unico attrezzo di protezione che mi sono portato dietro), metto via i bastoncini e mi avvio. L’inizio è promettente, cavi nuovi, sentiero pulito, ma l’affaccio sul vallone dei Ginepri, ancora così in ombra mi mette inquietudine. Mentre penso tra me e me che “in fondo l’ho fatta vent’anni fa con i ragazzini di soli 7 e 10 anni”, arrivano le prime scalette arrugginite e i vecchi tondini di ferro rosso sverniciato che fanno paura soltanto a vederli. Faccio finta che non ci siano e procedo con prudenza mettendo mani e piedi sulla roccia quanto più possibile, “tanto non ho nemmeno l’imbrago”.

 

 

All’improvviso ho freddo: vedo poco più avanti una stramaledetta lingua di neve che mi sbarra la strada e non ho niente con me, né ramponi, né piccozza, anche le scarpe fanno ridere, sono due pantofole da buttare. Comincio a pensare che avrei fatto molto meglio a salire al passo del Cannone e riscendere alla sella dei due Corni e alla Danesi senza tutti “sti patemi d’animo”, ma ormai sono in ballo e voglio vedere come va a finire. Il sentiero è attrezzato sempre peggio, a una scaletta mancano dei gradini, la cengia è bagnata e non aiuta, comunque con la “fortuna che aiuta gli audaci” arrivo sano e salvo alla neve, ma già bello “smaltito”.

 

 

Dovrei tornare indietro, lo so, ma mi rode; l’attraversamento del nevaio è di pochi metri, nemmeno tanto inclinati e siamo comunque decisamente sopra zero; inoltre ci sono delle piccole onde sul nevaio che, se prese per il verso giusto, diminuiscono leggermente la pendenza. Ma la neve è scollata dalla roccia per un buon tratto e l’inizio dell’attraversamento è più difficile perché bisogna risalire dalla voragine scavata dal sole sull’esile bordo che la contorna. “Mumble, Mumble”, mentre penso continuo a smaltire. Mi metto il pile, i guanti e ritiro fuori i bastoncini: forse le loro punte di acciaio mi aiuteranno a superare il passaggio e, in caso di caduta, mi aiuteranno ad arrestarla.

 

 

Risalgo dal buco profondo 2/3 metri sulla crestina, di là è troppo ripido, volerei di sicuro; con una mossa che mi potrebbe costare la radiazione dai Club Alpini di tutto il pianeta, mi metto a cavalcioni sulla crestina (che schifo!) e faccio 3 o 4 metri così; ho i pantaloni di cotone che si inzuppano immediatamente, ma non fa niente, funziona e arrivo agli ultimi 5 metri che, rialzatomi in piedi, tacca dopo tacca, aiutato dai santissimi bastoncini, supero in un ultimo spasmo di adrenalina. Dopo c’è ancora un pò di bagnato, ma il più è fatto; poco prima delle nove sono all’attacco della Danesi; devo correre al bagno, chissà perché?

 

 

Mentre riguardo la parete, ancora completamente in ombra, e mi stramaledico per non aver fatto il passo del cannone (alla fine ci avrei messo anche meno tempo), mi avvio per la Danesi. E’ ancora fresco a quest’ora e non c’è anima viva in giro, arrivo al famoso “buco”, ormai liscio come i gradini di San Pietro, e finalmente sono di là al sole. Mentre i primi escursionisti, appena sbarcati all’Arapietra dal meccanico ovetto, risalgono pigramente verso il Franchetti, io, che sono già in giro da due ore e mezzo, li guardo dalla vetta al Corno Piccolo.

 

 

E’ una bella sensazione, purtroppo rovinata immediatamente dalla mia nuova dotazione tecnologica (telefono Android super lusso con SIM BT e GPS Garmin) che mi fa impazzire. Ho fatto delle belle foto, è vero, ma fossi riuscito a spedirne una; niente, sono fuori rete, non riesco nemmeno a mandare un SMS! Il Garmin poi, non mi segna i Km, eppure ce li avevo messi! Sono ingegnere, eppure odio l’elettronica in montagna: ridatemi la mia vecchia cartina al 25:000 J.

 

 

Dopo aver perso 20 minuti ad armeggiare ed essermi ingoiato a malapena una pesca, invece di guardarmi il magnifico panorama, mi rimetto in movimento e opto per la normale (la Brizio mi deve avere stressato parecchio) che scorre via facile con quei suoi begli affacci sulla val Maone. Alle 10,30 sono di nuovo all’incrocio con la Danesi e ricomincio a galoppare, sulle pietraie ancora in ombra, verso la sella dei due corni e poi verso le morene del Calderone. Ora la situazione è più “animata”, supero frotte di alpinisti con caschi, corde e ferraglia varia (manco andassero al K2), diretti alla Gualerzi.

 

 

Do un’occhiata al Calderone e non mi sembra malaccio: con tutto il caldo che ha fatto, ancora regge bene; la neve è abbastanza bianca e il fondo più alto dell’anno passato; certo bisognerà vedere a fine agosto, però intanto mi accontento. Attacco la normale all’Orientale che già è nuvolo e poco prima delle 11,30 sono in vetta. Mi impongo di non tirare fuori il telefono e mi mangio in santa pace un meritato pezzo di formaggio.

 

 

Mentre le nuvole vanno e vengono e mi interrogo se proseguire o no per la Centrale e l’Occidentale, una coppia di ragazzi di Bologna mi chiede di fargli una foto. Chiacchieriamo un po’ e decidiamo di fare la cresta insieme. “Speriamo bene”, penso io, non mi voglio accollare la responsabilità di due principianti senza neanche la corda.

 

 

Invece i due vanno come treni: la ragazza è molto più brava di me ad arrampicare e gli sto dietro a malapena solo grazie alla mia brachicardia. Lui, mi dice la ragazza, fa l’8a in falesia; praticamente è come se passeggiasse a via del Corso. In calzoni corti, rasta, con le scarpe basse e senza una goccia di sudore, se ne va via tranquillo senza mai appoggiare le mani. 28 anni Lui chimico, 30 anni Lei Comunicazione. Lavorano entrambi da qualche anno e vanno in montagna felici come una Pasqua. Che bellezza! Penso che forse un po’ di speranza ci sarà anche per i nostri figli. In fondo Bologna è a soli 350 Km da Roma!

 

 

Per farla breve, in 20 minuti siamo sulla Centrale e in altri 20 al Torrione Cambi. Sudo e arranco come un cinghiale per stargli dietro, ma non mollo. Lui è fenomenale: individua i passaggi a vista, senza avere mai fatto il percorso, con una naturalezza che non ho mai riscontrato in nessuno dei miei amici, anche quelli bravi ad arrampicare; non ha mai bisogno di girarsi, scende sempre a faccia avanti con intuitività sorprendente.

 

 

Non abbiamo la corda per fare le doppie, riscendiamo per la Gualerzi e traversiamo i Terrazzi; nel frattempo raggiungiamo quelli bardati del mattino che fanno le doppie. I due ragazzi li superano con agilità, io aspetto il mio turno (comincio ad esser lesso). Arriviamo all’ultimo, più difficile, tratto della via, dalla forchetta del Calderone all’Occidentale. Bisogna fare il passaggio “speleo” nella buia e stretta fessura che da accesso alla cengia e alla salita finali. Finalmente anche il bolognese fa un po’ di fatica: senza la neve che alza un po’ il pavimento è veramente dura; gli passo lo zaino e con un ultimo strenuo singulto esco fuori dal buco.

 

 

Quelli ripartono chiacchierando amenamente, mentre io annaspo e nemmeno voglio guardare di sotto, così slegato e stanco come sono; supero, senza protezione, dietro a loro, i passaggi esposti di III°, di solito eseguiti con perizia mettendo fettucce e moschettoni. “Sono proprio un incosciente”, penso tra me e me, “c’ho pure un bambino piccolo!”.

 

 

Comunque, ormai è quasi fatta, arriviamo al famoso passaggio del masso staccato di IV° che io ho fatto una volta sola, tribolando non poco con Claudio e Stefano che pure sono degli ottimi arrampicatori. Io non ci penso nemmeno un attimo a farlo e scendo prudentemente per il camino a sinistra (che è al massimo di II°); la ragazza è indecisa; Lui sparisce e dopo 20 secondi si materializza quasi in vetta … è passato camminando! Ma consiglia alla ragazza di venire dietro a me (“ma allora è difficile davvero sto passaggio, “non sono proprio così scarso!”). E’ il mio momento di gloria: Lei mi sta attaccata alle calcagna in discesa, ma sull’ultima risalita (saranno 50 metri di I° grado), l’endurance del maratoneta viene fuori alla grande e arrivo in vetta un paio di minuti prima di Lei!

 

 

Sono un uomo finito, ma alle 13,15 ho concluso il giro delle 5 vette! Sono felice e appagato e mi sento molto in sintonia con questi ragazzi; gli voglio quasi bene e non so nemmeno i loro nomi: finalmente ci presentiamo; che belli che sono: così magri, agili e pieni di vita, dei moderni Kouroi alpini. Forse anche io ero come loro trent’anni fa, anche se sicuramente meno bravo. Chiacchieriamo e gli consiglio di scendere al Passo del Cannone per tornare ai Prati di Tivo, ma loro non sono stanchi e vorrebbero scendere per la val Maone, vogliono dare un’occhiata ai Pilastri dell’Intermesoli e alle Spalle del Corno Piccolo.

 

 

Va bene, continuiamo insieme per la via delle creste e la sella del Brecciaio; ci separiamo ad una lingua di neve che va giù al Garibaldi: li vedo andare via leggeri e sorridenti verso la vita. Poi mi avvio anche io a passo svelto verso la sella del Monte Aquila. Le nuvole vanno e vengono, ma prima o poi pioverà e così, avendo recuperato le forze in discesa, non perdo tempo e alle 15,20 sono all’auto.

 

 

8 ore e 20 per fare circa 1500 metri di dislivello e 18 Km. Tiro fuori il Garmin per avere conferma; Nooo! “Low Battery” e una riga dritta dal torrione Cambi a Campo Imperatore, mi indicano che la parte finale della gita non è stata tracciata! “Adesso ci passo sopra con le ruote dell’auto”, lo odio profondamente! Ma poi la saggezza prevale e salgo in auto soddisfatto. “Ci vogliono proprio 13 ore per ricaricare le batterie”, 10 non bastano….

 

 


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