Cristina Cimagalli
È incredibile: sono riuscita a dormire! Le due notti precedenti avevo dormito male: agitata, tesa, piuttosto impaurita per l’impresa che mi aspetta. Stanotte invece, anche se solo per due ore o poco più, ho dormito davvero. Eppure è la notte in cui devo salire al Bianco... La paura è sparita: sono molto caricata, decisa a fare del mio meglio.
I preparativi sono rapidi, i gesti ormai collaudati nelle giornate precedenti. Quasi tutto è stato preparato dalla sera prima, perfino le corde di cordata con i nodi a palla già fatti: ci agganciamo i moschettoni e usciamo. È l’una e trenta di notte.
Mentre scendiamo dal Refuge des Cosmiques (3613 m) al sottostante Col du Midi (3532 m) ascolto il crocchiare dei ramponi sulla neve dura e mi guardo intorno: è una meraviglia! La luna, piena e splendente, è alta sopra il Mont Blanc du Tacul: accarezza tutte le montagne innevate intorno con la sua luce morbida, di madreperla. Quasi quasi non c’è bisogno della frontale... Ma ben presto giungiamo ai piedi del pendio del Mont Blanc du Tacul e la luna sparisce, coperta dalla gran massa del monte che ci sovrasta. La salita inizia subito ripida e Stefano, capocordata, la affronta di slancio: calcolerò dai dati registrati nel mio altimetro che abbiamo tenuto un passo da 350 m/h, sceso gradatamente fino a una media di 325 m/h nel corso delle due ore di questa impettata. Il passo ‘bersagliero’ di Stefano è un po’ troppo veloce per il mio organismo diesel, lento a partire anche se abbastanza resistente nella durata. «Un po’ meno, per favore!» lo supplico. «A me va bene così», mi risponde per nulla commosso. Avrei voluto replicargli che lui è un uomo atletico alto du’ metri, io una donna piccoletta tendenzialmente sedentaria e cicciottella... Ma comprendo bene perché ha tanta fretta e non prende la più tranquilla andatura dei giorni precedenti (ca. 200 m/h) che mi permetteva di procedere senza alcuna fatica: le previsioni annunciano temporale nel pomeriggio. A circa metà salita provo a trattare ulteriormente: «Perché non mettiamo Franco in coda?», così il peso della corda, maggiore dei giorni precedenti dato che oggi ci siamo legati a conserva molto più corta, graverebbe su di lui e non su di me. Stefano però preferisce saggiamente tenere Franco al centro: benché sia assai più forte di me, il Trafo è un pochino meno esperto, essendo io al mio quattordicesimo ‘oltrequattromila’. A un certo punto, però, l’inflessibile capocordata si intenerisce: «La corda te la tieni, ma dammi qualche peso del tuo zaino». Non faccio storie, anche se è la prima volta che mi succede e l’orgoglio ne soffre: approfitto della sua generosità e gli cedo il piumino e i sovrapantaloni, più di un chilo di peso, perché mi rendo conto che la velocità oggi è assai importante.
Man mano la limpida atmosfera notturna sta velandosi di soffi nebbiosi; nere nuvole avvolgono la luna quando, dopo aver passato di slancio il traverso sotto i giganteschi seracchi e scavalcato con prudenza l’ampia crepaccia terminale (mi chiedo in che condizioni sarà al ritorno...), sbuchiamo sui circa 4100 m della spalla del Tacul. Di fronte a noi si erge minaccioso il Mont Maudit, che davvero Maledetto sembra: un gigantesco muro verticale nerissimo nell’ombra. Mi incute paura. Lucine di frontali ne solcano le tenebre in zig zag che sembrano inerpicarsi con assoluta verticalità.
Maurizio e Fausto ci raggiungono poco dopo; sembra che tutto vada bene, le loro voci sono squillanti. Ci si rinfranca in un tratto in lieve discesa, e dopo poco si riprende a salire; ora siamo noi le lucine che punteggiano il nero dorso del Maudit. Superata senza problemi la crepaccia terminale, fortunatamente quasi chiusa, inizia la parte tecnicamente più impegnativa ma anche più divertente dell’intera salita: un muro verticale di ghiaccio su cui la punta della picca riesce a penetrare solo di pochi millimetri. Per fortuna le guide hanno armato una serie di corde fisse, che rendono più sicura la salita. A circa metà del muro un passaggio di misto su rocce assai instabili contribuisce a variare la tecnica (dopo di noi qualcuno deciderà di spostarne qualcuna, bloccando per quasi un’ora le cordate successive, compresa quella di Maurizio e Fausto).
Eccoci dunque alla sommità del Col du Mont Maudit (4345 m). Ora si scende di nuovo, con un traverso un po’ aereo, fino a una prima sella: al di là di essa il cielo rosseggia intensamente, presago dell’alba imminente. Sono circa le cinque e mezzo. Dopo altri saliscendi arriviamo al Col de la Brenva (4303 m); benché il sole sia sorto tira un forte vento e fa un gran freddo. Decidiamo di aspettare l’altra cordata, e nel frattempo mi copro con quasi tutto quello che ho, arrabattandomi goffamente con chiusure lampo che non ne vogliono sapere di chiudersi tra i lembi quasi strappati via dal vento; i miei amici mi assistono con paziente premura. Aspettiamo più di una ventina di minuti ma di Maurizio e Fausto nessuna traccia: che fare? Anche i cellulari non prendono. Se protraiamo l’attesa rischiamo di fare troppo tardi e di dover tornare indietro anche noi; d’altronde il percorso è frequentato, e se fossero in difficoltà non si troverebbero certo da soli... Decidiamo di proseguire.
Ci attende il Mur de la Côte, un faticoso pendio di 100 m a 40°. Io mi sento con il carburante in riserva: fatico a mettere un piede davanti all’altro, procedo solo con un grande sforzo di volontà. Al termine del muro dico agli amici: «Ragazzi, sono stremata!». Qui mi sarà provvidenziale Franco, che mi allunga una sua barretta magica di carboidrati: ora capisco da dove vengono i superpoteri di Trafoman! Ingollata questa specie di malta gommosa mi sento improvvisamente trasformata: il goretex si allunga e si apre spalancandosi in un lungo mantello blu svolazzante, pile e sovrapantaloni si affusolano in una tuta rossa aderentissima, casco e occhiali aderiscono al volto come una maschera. Tah dah! Più veloce della luce, pronta per nuove avventure!
Così ripartiamo sull’ampio groppone finale. La vetta sembra lì, sembra che siamo quasi arrivati... Ma i passi si susseguono l’uno all’altro, il tempo passa e la vetta non si avvicina. La nostra media in questo tratto non è troppo lenta (270 m/h), eppure mi sembra di non procedere affatto. Quando la vetta sembra a portata di mano, chiedo speranzosa a Stefano: «Quanto manca?» La risposta è ferale: «Ancora duecento metri».
Eppure, alle 8.30 ci siamo: non c’è più altro da salire. Una lunga cresta sommitale senza croci, cippi o madonnine; ai nostri piedi il mondo. Mi vengono le lacrime agli occhi, e mi ricordo il pianto dirotto in cui scoppiammo Lucat e io sulla cima dell’Elbrus, l’altro ‘monte più alto d’Europa’; ma lì c’erano altre ragioni, la conquista era stata più sofferta. Abbraccio i compagni, ringraziandoli di cuore: senza di loro non sarei stata lì. Ci abbiamo messo esattamente 7 ore, il tempo minimo dato dalla guida CAI di Buscaini che prevede dalle 7 alle 9 ore...
Dopo esserci allungati un po’ a esplorare la cresta verso le vie per il Gonella e il Gouter ritorniamo sui nostri passi e iniziamo la discesa. Ora mi sembra di volare... Anche nelle piccole salite che il ritorno ci riserva mi sento forte e invincibile, e le affronto quasi senza fatica: ora sono io in testa, e tengo il passo che mi torna comodo... Ma la luce del sole ci rivela una realtà più rischiosa di quella che avevamo potuto percepire di notte: non solo quasi tutto il pendio del Tacul ma anche quello del Maudit sono sotto il tiro di giganteschi seracchi che incombono minacciosi. Possiamo anche accelerare nei tratti in cui li abbiamo proprio sopra la testa, ma quasi tutto il percorso si svolge sotto di loro. Non bisogna perdere tempo...
Un po’ di tempo lo dobbiamo perdere invece per scendere il ripido muro del Col du Mont Maudit. Incontriamo un gruppetto di simpaticissimi francesi, due uomini e una ragazza; uno dei due, carino e simpatico, si rivelerà essere un prete (sono sempre i migliori che se ne vanno!) che ha fatto il seminario a Roma e parla benissimo italiano. Così uniamo le forze: noi armiamo una doppia, uno dei francesi scende per primo e alla sosta allestisce con la loro corda la doppia successiva, mentre noi ci caliamo lungo la prima. Nonostante ciò ci impieghiamo quasi due ore...
Sul pendio del Tacul finalmente il cellulare prende e riusciamo a scambiarci un messaggio con il nostro ‘campo base’ Chiara che ci tranquillizza, anche se non ci dice cosa sia successo all’altra cordata: ci dice solo che Maurizio e Fausto stanno bene e ci dà appuntamento alle 15 ai piedi del Cosmiques. Noi arriviamo un po’ in anticipo, loro con circa 15’ di ritardo. Così gli ultimi 250 m di salita all’Aiguille du Midi (3795 m) diventano una corsa: dobbiamo assolutamente prendere l’ultima cabinovia delle 16, altrimenti dovremo ritornare a dormire al Cosmiques. Sull’affilata e ripida crestina finale accade l’incredibile: il super Trafoman è stanco (!) e chiede «Cristina, non puoi rallentare un po’?». Cristina gli risponde seccamente: «Non se ne parla nemmeno: mancano solo 4 minuti!». E il mitico Trafoman, ormai regredito nell’ancestrale Grufolatore, procede sbuffando e imprecando contro la corda che gli finisce sempre tra i piedi...
Mi sono chiesta se non fosse il caso di fermare tutti e far prendere le piccozze, poi per non perdere tempo mi sono accontentata di afferrare la mia che avevo nello spallaccio; forse quest’ultimo tratto è quello in cui abbiamo rischiato di più, essendo tutti piuttosto stanchini e la cresta troppo sottile ed esposta per essere percorsa con i soli bastoncini... Ma siamo arrivati agli impianti giusti giusti alle 15.59, infilandoci nelle cabine ancora legati dalle corde, con i ramponi in mano...
La cordata di Maurizio, Fausto e Chiara che ci precedeva è stata accolta dall’applauso e dalle foto di un gruppo di giapponesi. Si saranno sentiti come George Clooney a Fiumicino o Armstrong al ritorno dalla Luna!
Dislivello totale: 1800 m
Difficoltà: PD/PD+ (Buscaini); PD+ (R. Goedeke, I 4000 delle Alpi)
Tempi: salita 7 ore, discesa e risalita all’Aiguille du Midi 7.30 (comprese soste). |