La montagna che lascia il segno
Ci sono passioni che marchiano a fuoco, proprio come l’amore. La montagna è un marchio che mi porto addosso, tatuato indelebilmente su un avambraccio e su uno stinco e ora anche impresso nelle ossa. Il mio corpo ricalca la geografia di alcune delle montagne che ho salito: il Brecciaro al Terminillo, il Mangart in Slovenia e il Pizzo d’Uccello alle Apuane. Quest’ultimo in ordine di tempo ha voluto ricordarmi chi comanda, chi detta le regole del gioco.

Cadere è questione di una frazione di secondo: sei impegnato a salire, o a scendere, e in un attimo sei in caduta libera. Se voli per decine di metri hai tutto il tempo di realizzare cosa sta accadendo, rispondendo al cervello che ti dice di muoverti per uscire da quella situazione. Se la caduta invece è breve fai appena in tempo ad accorgerti dell’errore che sei a terra. Se ti dice bene e sei integro, ti rialzi subito e inizi a contare i danni, altrimenti sono gli altri a contare per te i secondi che passano prima di sentire di nuovo la tua voce.

Il Pizzo d’Uccello alla Apuane è stato il banco di prova dei miei nuovi scarponi da alpinismo, rigidi e in quanto nuovi poco conosciuti. In montagna, soprattutto in veste invernale, l’abilità non sta “solo” nella competenza tecnica e nel mantenere la concentrazione, ma anche nella conoscenza degli “strumenti di lavoro”, nella confidenza con essi. Direi che la parola giusta è proprio con-fidenza, si: con la montagna in primis, con la sua pelle e il suo aspetto; con se stessi e le proprie capacità e paure, in secondo luogo; last, but not least, con l’attrezzatura da utilizzare. Sarà stato per la scarsa confidenza o per l’azzardo di un passo troppo lungo per la mia falcata, sta di fatto che ho mancato il breve passaggio di I grado in cresta e la forza di gravità ha avuto la meglio. Il mio corpo è stato attirato come una pagliuzza di ferro di fronte alla calamita, impossibile opporre resistenza. Secondi, frazioni di secondi, un brivido lungo la schiena e la certezza alla base della nuca di cadere inevitabilmente senza sapere quanto distante sarà la fermata.  Il pendio non è ripidissimo e sotto di noi si snodano i tornanti del sentiero di salita appena percorsi, con chiazze di neve alternate a rocce affioranti.  Il primo urto è riservato al fondoschiena, il secondo alle ginocchia, il terzo… non ce n’è un terzo per fortuna. Mi fermo bocconi faccia a valle, la testa in mezzo ai massi, il corpo a metà tra neve e rocce, lo zaino che sembra volermi spingere più a valle. Lo spavento è tanto che sul momento non mi rendo quasi conto di come sono messa e stento a capire come muovermi. Ma ci sono, non ho ferite in viso né problemi motori. Sono volata all’indietro per appena un paio di metri, Giorgio è velocemente da me e mi aiuta a riprendere il controllo. Senza accorgermene mi tiro su a sedere sulla neve, il che probabilmente mi aiuta a non sentire la botta presa vicino all’osso sacro. La schiena è integra, benedetto zaino! Ma le ginocchia mi fanno un male cane, soprattutto il sinistro. Sono caduta di schiena, ma col primo urto mi sono girata su un fianco ed ho finito per abbracciare il suolo, battendo pesantemente tutte e due le rotule e le mani usate istintivamente a protezione. Mi sento come una campana suonata a festa, rintronata dalle botte e dai pensieri di ciò che poteva accadere. Ci vuole un po’ a riprendermi, a capire che non sarei potuta scivolare molto più giù, ma che nello stesso tempo sono stata davvero molto, molto fortunata. Recuperata la calma mi rialzo, uso l’imbrago per legarmi in cordata, e ricomincio la salita. Nonostante le mani  doloranti e le ginocchia restie ai piegamenti, supero il passaggio incriminato senza problemi e coprendo la metà della cresta ancora mancante, arrivo in cima, in una salita invernale fronte Pisanino imbiancato.

La soddisfazione è tanta, anche più del solito forse, benché la visibilità sia scarsa per via del brutto tempo. Ma sostiamo pochissimo in vetta, non mangiamo nemmeno; il meteo non invoglia e soprattutto bisogna evitare che il corpo dolorante si raffreddi dovendo ancora affrontare la discesa. E questa è la vera impresa della giornata: ho una gamba quasi di legno e un’altra che da sola deve fare tutto, aiutata da mani timorose di sostenere il corpo appoggiandosi alla roccia. Il passaggio più delicato è l’infido canalino innevato, non lungo ma reso ripido dalla neve, poco sotto la vetta, superato il quale ci si rilassa un po’. Ma il tempo di discesa con me claudicante sembra raddoppiare ed è impossibile fare di meglio, impossibile evitare il dolore. Giungiamo alla macchina che il corpo va da sé, ha trovato il suo ritmo, ma ora che l’effetto neve è finito, anche sedermi è impegnativo.

Pizzo D’Uccello (1781 m), Alpi Apuane, 27 dicembre 2012. A distanza di un mese e mezzo dall’avventura appena descritta, le mie ginocchia sono ancora ammaccate, una ha perfino cambiato aspetto guadagnando una gobbetta proprio sotto la rotula che prima non c’era. Potrei vederlo come il regalo della montagna per la mia tenacia,  ma credo di considerarlo di più come il monito a ricordare sempre la mia piccolezza davanti ad essa e la sua benevolenza nei miei confronti. Tengo per me il resto delle riflessioni sull’andare per monti con un bimbo piccola a casa… il capitolo sarebbe davvero tormentato da scrivere.

Sara 06/02/2013

(quella sotto è una foto della bellissima parte nord in versione estiva del Pizzo d'Uccello; a sx la cresta percorsa da Foce di Giovo)

qui le foto postate da Giorgio:

https://picasaweb.google.com/108100786326273758515/121227PizzoDUccelloApuane?authkey=Gv1sRgCLXbp5Tz0JqphgE&feat=email


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