Qua, nella tenda a 6.000 metri, la sensazione che più mi accompagna è questo freddo, un freddo costante, che neppure la piuma di cui è imbottito il mio sacco a pelo riesce a vincere; con il mio compagno che si rigira insonne… e questa pioggerella di ghiaccio sul viso che provocano le raffiche di vento, staccando la condensa gelata all’interno del telo.. allora provo a chiudere anche il volto all’interno, ma così la mancanza d’ossigeno, già di per se così snervante, diventa davvero insostenibile… eppure sono qua e i pensieri vagano continuamente e si rincorrono in una sorta di delirio che durerà tutta la notte: la gioia della vetta raggiunta da poche ore con una fatica inaudita; il mio primo “settemila”; mia figlia lontana 13.000 km; i compagni con cui condivido questa avventura; la paura di un edema cerebrale che ti porta via nel sonno; e tutte le tappe che mi hanno portato fin qua..
Aconcagua, la “sentinella di pietra” in lingua Quechua, un colosso di 6.962 metri in mezzo ad altre, tante cime che superano i 5.000, che sembrano così piccole in confronto, nel bel mezzo delle Ande al confine tra Argentina e Cile. La montagna dove si allenano coloro che scaleranno poi in Himalaya, perché per una strana miscela di secchezza dell’aria, circolazione dei venti e mancanza di vita vegetale per un raggio di decine di chilometri, la rarefazione dell’ossigeno equivale a quella di un 8.000. Un’avventura nata non per caso ma come corollario di tante altre spedizioni all’estero vissute quasi tutte con l’amico e collega Alessandro Ponti che stavolta non è con me: Kala Pattar in Nepal, Ararat in Turchia, Damavand in Iran, Stok khangri in Ladakh, Elbrus nel Caucaso russo, tutte ben oltre i 5.000.
Siamo in sette - anche se solo in tre alle 14,30 del 26 gennaio di quest’anno abbiamo raggiunto la vetta - e abbiamo affrontato questa spedizione con molta cura; alimentazione, acclimatamento, allenamento, tutto è stato progettato con attenzione. Ma l’Aconcagua non si concede facilmente e le statistiche parlano chiaro: la media di successo è di 1 a 5 e alla fine anche il nostro gruppo ha fatto i conti con questi numeri. Michele rinuncia già dal campo base, Sandro spacca letteralmente uno scarpone al campo 1, Daniele rinuncia per il freddo al campo 3 e Mimmo, il nostro capo spedizione, a 100 metri dal traguardo… per una saggia decisione: sente di non essere più in se, parla come fosse ubriaco e il sentore che ha è il mal di montagna acuto che lo sta per sopraffare. E con questo non si scherza, decide di scendere. Io salgo in compagnia di Fabio, mentre Maurizio è indietro, non sappiamo quanto. Siamo partiti prima dell’alba, con 20 sotto zero dal campo 3, a 6.000 metri; con un cielo così stellato che sembra un soffitto, neppure tanto alto, e nel silenzio più assoluto saliamo, ramponi ai piedi, e man mano che guadagniamo metri l’unico pensiero è salire, salire mentre le gambe si fanno sempre più pesanti. Anche i muscoli, oltre al respiro, reclamano ossigeno per muoversi, ma quello che c’è non basta e allora la fatica diviene una sfida, un calcolo: intorno ai 6.500 comincio a contare, 10 passi e recupero appoggiandomi ai bastoncini, e di nuovo così, come un automa. Poi i passi diventano 5 alla volta e quando Mimmo si ferma anch’io penso “non ce la faccio più”. Ma la vetta è là davanti, mancano 100 metri e allora su, senza difficoltà tecniche, ma in un canalone “la canaleta” a 45°, un terreno misto di pietre e ghiaccio. Sbuchiamo sulla “cresta del Guanaco” (dove appunto fu trovato il corpo mummificato di questo animale, parente del lama, portato là forse dagli Incas, che pare abbiano scalato la montagna centinaia di anni fa) quando mancano 50 metri, e all’improvviso dall’altra parte ci affacciamo sulla immensa parete sud, un precipizio di 3.000 metri che contrasta con il versante nord, molto più docile, su cui sale la “via normale” che noi abbiamo seguito. Ed eccola, finalmente, la cima, il piccolo pianoro sommitale con la mini-croce d’alluminio piena di adesivi, madonnine di Lourdes, e un campionario quanto mai vario di oggettini, nastri e bandierine lasciati là da chi ci è arrivato. Qualche foto con le mani congelate, la testa che ronza, abbracci con Fabio e dopo un po’, mentre inizio a scendere, anche Maurizio, stravolto, sale gli ultimi metri. 1.000 in totale per quest’ultimo “strappo”, per salire i quali abbiamo impiegato 7 ore e mezza, un dislivello che in Appennino salgo in 2… Ma ci siamo, ce l’abbiamo fatta. Guardo il mio altimetro, la temperatura è -29° ed è l’ora più calda del giorno… i metri 6.962, tanto per non darti la soddisfazione del numero 7 come prima cifra.
Da quando abbiamo lasciato la “civiltà”, a Puente del Inca, ci sono voluti 9 giorni per arrivare quassù, altri 4 ne serviranno per tornare indietro, un trekking di 40 km in una valle lunare che percorreremo anche al ritorno, un giorno di riposo completo al Campo base (Plaza de Mulas 4.300 mt), e 3 campi avanzati che abbiamo allestito salendo un giorno dopo l’altro per trasportare i materiali e i viveri al campo successivo, ridiscendendo per la notte, e su di nuovo con le tende il giorno dopo. Campo 1 “Canada” a 5.000; Campo 2 “Nido de Condores” a 5.500 e Campo 3 “Colera” a 6.000. Ma ne è valsa la pena, anche se lo stimolo che ci ha portato fin qua sta tutto dentro di noi e forse qualcuno che leggerà questo breve resoconto ci darà dei pazzi… Mi fermerò? Chissà, la saggezza dovrebbe dirmi di si, ma sognare non costa nulla e in fondo appena 1.800 metri più su… c’è l’Everest..
Claudio Cristofari
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