Che fai per festeggiare gli anta? – mi chiedono. Mi dedico al bello. A giugno abbiamo organizzato il Selvaggio Blu e a luglio vorrei salire il Monte Bianco.
Ma poiché al secondo obiettivo non ho lavorato per bene, non ho la forma fisica necessaria. Soprattutto ho un tarlo nella mente e nel cuore che non mi abbandona e insinua in me pensieri di incidenti in alta quota e cadute mortali in cordata. Ci provo ad ignorarlo, ma l’inquietudine non è il sentimento giusto con cui avviarsi per ghiacciai e 4000 e tergiverso, fino a che non comunico a Giorgio che questo non è l’anno del Bianco. Ci metto un bel po’ a desistere, anche pressata da lui che mi accusa di essere una grande temporeggiatrice a scapito suo e del suo tempo. Morale della favola ai primi di luglio accantoniamo il progetto Bianco e passiamo al progetto Dolomiti; quindi no ghiacciai e neve, ma pascoli verdi e roccia. Nel cervello fa differenza, è indubbio; nella realtà ci si ammazza altrettanto su roccia, ma il pericolo sembra inspiegabilmente più remoto.
In quattro e quattr’otto, grazie alla conoscenza che Giorgio ha della zona, impostiamo la nostra settimana corsara di 5-6 giorni in zona Cadore, sapendo però che il meteo non sarà splendente.
Proprio causa meteo facciamo una prima tappa in Alpago, dove sembra meno brutto e possiamo scaldare le gambe. Il 27 luglio partiamo da Roma e ci leviamo la sete col prosciutto salendo il Col Nudo, la più alta elevazione delle Prealpi Venete (2.472 m), molto simile alle Dolomiti ma decisamente meno frequentato. Saliamo la bella cima e scendiamo tutto di corsa, dormiamo in zona che l’acqua viene giù a catinelle e il mattino dopo ci muoviamo in direzione di San Vito di Cadore.
Nel primo pomeriggio del 28, godendo di una pausa di pioggia, ci avviamo verso il Rifugio Galassi (2.018 m), da dove salire l’indomani all’Antelao. Non credo di averlo mai visto il Re delle Dolomiti, assecondo con piacere il desiderio di Giorgio che non lo hai mai salito; e incappucciato com’è posso solo intuirlo mentre ci avviciniamo da valle, incombente sulla Forcella Piccola.
Nel vento e nella pioggia ci imbuchiamo al Galassi che è pieno di ragazzi, protagonisti di un esperimento di gestione CAI che vede all’opera una cooperativa di giovani volontari. La struttura è molto grande, una ex caserma, ma siamo pochi avventori e nessuno ridisceso o diretto all’Antelao; alcuni ragguagli sulle condizioni della montagna ci vengono dal più esperto dei ragazzi, che ci aggiorna sulla frana che ha cambiato la parte superiore della montagna, le Laste. Una volta la montagna aveva due gradoni, come due balze, che il crollo ha spianato, al punto che la parte sommitale ora è un unico grande scivolo reso infido anche dalla ghiaia rimasta dalla frana. C’era perfino un bivacco, il bivacco Cosi, che ora non c’è più.
Andiamo a letto tranquilli e alle 7.30 siamo in marcia sotto una leggera pioggerella. Non ci muoviamo molto presto perché il meteo dà miglioramento a partire dalle 8 e fino alle 15 dovrebbe reggere, dandoci modo di salire e scendere in tempo per evitare pericoli. Ritornati alla Forcella Piccola prendiamo il sentiero che sale fin dentro il primo anfiteatro alla base della montagna, in cui l’erba lascia il posto alla ghiaia e a ogni passo si fatica il doppio. Lo seguiamo fino ad attaccare la Bala, un primo grande scoglio che visto da San Vito sembra la parte finale del trampolino del chilometro lanciato. La linea di salita si sviluppa a zigzag su per cengette, che formano tanti gradoni da superare con perizia; il rischio è cadere e trasformare la Bala in una bara, come purtroppo è accaduto nella storia di questa montagna. In discesa ci scherzeremo sull’assonanza lessicale, ma in salita siamo molto concentrati a trovare il passaggio. Il meteo nel frattempo mantiene le promesse e l’azzurro intenso del cielo aperto ci dà una visibilità assoluta; solo la cima vera e propria è avvolta da cumuli bianchi che impediscono la vista… speriamo si dissolvano.
Una volta usciti in cresta lo spettacolo della Val Boite e soprattutto del Pelmo dall’altra parte della valle è pazzesco: è grosso il Caregon del Padreterno, massiccio, capisco perché lo chiamino così! E sembra così vicino! Fa da sfondo al famigerato piano inclinato della via normale all’Antelao, aiutando l’occhio a misurare l’inclinazione di questo versante di salita. Siamo sui 35-40 gradi, un’unica grande lastra di roccia dolomitica sporca di brecciolino, terra, rivoli d’acqua che percola dai nevai superiori. Qualche ometto ci aiuta a raggiungere un cumulo di grossi massi probabilmente ammucchiati dalla frana e da qui in poi la progressione non ammette davvero distrazioni.
Lasciamo i bastoncini e usiamo la piccozza per appoggiarci all’occorrenza, puntandola nella terra bagnata dove si può. Seguiamo la traccia che porta prima verso il cuore del lastrone, lambendo un grosso crepaccio nella roccia, poi si sposta verso la cresta a strapiombo sul ghiaione sottostante. Il piede deve essere sicuro, la posizione del corpo si fa sempre più ricurva man mano che saliamo. Dove non c’è terra e brecciolino gli scarponi fanno un attrito incredibile, come fossero ventose, dandoci un grande senso di sicurezza; ma dove la roccia è sporca la sensazione di instabilità è forte, ci aiutiamo con tutto ciò che abbiamo, mani incluse. Meglio non pensare che a salita corrisponde discesa e da qui dovremo ripassare…. Alla nostra sinistra nel frattempo, centinaia di metri più in basso, scorrono i fotogrammi del Ghiacciaio Superiore dell’Antelao, con i suoi bellissimi laghetti di fusione.
Superiamo con successo la parte più complicata delle Laste, sporca e ripida, che ci deposita nei pressi della cima. Ma ecco che qui la traccia sembra perdersi fra i massi e purtroppo siamo nella nuvola che non si è dissolta come sperato. Ad aiutarci è la fortuna, un momento di apertura che ci regala maggiore visibilità ed eccolo il passaggio, che gira dalla parte opposta a dove pensavamo di dover andare. Meno male che ci siamo fermati a ragionare, anche se incalzati dallo spauracchio del maltempo. Un breve sali e scendi fra massi, sempre con molta attenzione, e vediamo la croce ormai vicinissima. Che salita entusiasmante! Siamo in vetta alle 11.30 (3.264 m), non fa freddo ma nemmeno caldo perché la nuvola ci nega il sole e preclude il panorama che da qui sarebbe stratosferico. La nostra sosta non dura molto se non vogliamo ritrovarci a discendere le Laste con la pioggia; una foto di rito e via giù.
La piccozza si fa doppiamente utile in discesa, con la becca piantata nel terriccio o sfruttando un breve nevaio; in un tratto su roccia procediamo faccia a monte confidando più che mai su piedi, equilibrio e vibram. Si smaltisce più in discesa che in salita, i nervi sono tesi, ma il panorama compensa ogni sforzo: fuori dalla nuvola della cima abbiamo negli occhi il gruppo delle Marmarole e subito dietro il Sorapiss, da una parte la valle di Cortina e il Pelmo e dall’altra quella di Auronzo. Non possiamo non trovare il momento per fare qualche foto, il meteo è dalla nostra e vengono fuori foto memorabili. Seguendo pedissequamente la via di salita ritorniamo ai massi dove abbiamo lasciato i bastoncini e qui ci concediamo finalmente una pausa merenda.
Il resto è “semplice” discendere, prima ancora in cresta, poi per i gradoni della Bala, che ci danno più da fare in discesa che in salita per rintracciare il passaggio. Alle 15 siamo sull’erba della Forcella Piccola, senza avere avuto una goccia di pioggia, stanchi si, ma soprattutto spossati psicologicamente dalla tensione continua.
L’Antelao si è rivelato una montagna impegnativa, che non consente mai di perdere la concentrazione, pena errori che si pagherebbero cari. Due sole persone abbiamo incontrato in tutta la giornata, due skyrunner saliti da San Vito che già scendevano vincitori alle 9 del mattino. Anche la solitudine fa la differenza su una cima del genere e nel contempo contribuisce alla sua grandiosità.
Siamo entrambi soddisfatti e accomunati da emozioni grandi, difficili da raccontare, che riguardano la montagna, ma anche noi due. Ci accade in questi casi di sentirci molto fortunati ad essere giù integri dopo aver penato e rischiato per scelta; la nostra forza più grande è esserci insieme, anche se non ci siamo potuti assicurare l’uno all’altro nemmeno per un metro.
Ci avviamo rifocillati verso il Rifugio San Marco, dove riposeremo mente e corpo in vista della prossima meta: il Sorapiss.
Sara
Foto
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14 novembre 2019
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